
Ci sono alcune parole chiave utili a collegare i lavori in mostra: spazio pubblico, movimenti sociali, inchiesta, documentario, lavoro. E'un diagramma che descrive un “fuori artistico” e rimanda, inevitabilmente, ad una costellazione postmediale che solo un piccolo amo immaginario potrebbe tenere ancorata alla storia dell'arte.. Ma l'amo è immaginario, appunto, superflua la sua funzione d'appiglio. Infatti, il superamento della specificità mediale è un processo avviato a partire dagli anni Sessanta per merito del Minimalismo attraverso la sua caratterizzazione dell'opera come esperienza percettiva, vale a dire calata all'interno dello spazio degli oggetti e dei corpi piuttosto che in quello trascendentale proprio della pittura tardo-modernista. Spazio che per alcuni artisti degli anni Settanta diventa sociale, istituzionale e come tale indagato in tutte le relazioni di potere ed i rapporti di forza che lo attraversano. E' in questa decade che il contenitore diventa contenuto, in quella traslazione che un critico ha definito come l'ultima forma dell' accademismo modernista. La specificità del sito sostituisce la specificità mediale, trasformando lo spazio museale da luogo di storicizzazione a luogo di produzione, spingendo l'arte, secondo un altro punto di vista piuttosto critico, tra le braccia dell'industria culturale. Questo movimento di deterritorializzazione dell'opera che inghiotte la cornice e le peculiarità del medium non è, naturalmente, un processo lineare e progressivo. Dopo l'accelerazione impressa dal ventennio Sessanta-Settanta, si registrano spinte di reazione, correnti che, in particolare negli anni Ottanta, grazie al sostegno del mercato, lavorano per un ritorno alla pittura, alla figurazione, ai media tradizionali. Dunque, nonostante il sospetto d'accademismo e l'odore di industria culturale (critiche che è certamente giusto non sottovalutare) questo movimento di deterritorializzazione dell'opera, questo mutamento ontologico si dà come uno dei fondamentali momenti di rottura con il tardo modernismo di matrice greenbergiana, con il suo anelito alla purezza, all'eliminazione di tutti quegli elementi non immediatamente incolonnabili sulla linea della tradizione artistica e, perciò, percepiti come kitchs. Da questa sommaria genealogia si evince il percorso che ha condotto ad una modificazione sostanziale dei criteri del giudizio artistico; se l'opera eccede la cornice per indagare lo spazio sociale ed istituzionale, allora ciò che importa sarà l'analisi della sua funzione, ovvero del suo effetto sociale. In questo senso l'arte legata ai movimenti sociali può essere vista come una prosecuzione di tale traiettoria di allargamento dei confini dell'opera. Se l'oggetto minimalista aveva in qualche modo incrinato la convinzione nell'autonomia dell'opera d'arte, offrendole invece una linea di fuga verso lo spazio sociale attraverso la sua attenzione alle caratteristiche materiali del contesto espositivo ed alla sua necessità di essere esperito piuttosto che letto, oggi, l'arte legata all'attivismo può permettersi di dare per acquisito questo passaggio, di abbandonare il riferimento diretto allo spazio galleristico per prendere in considerazione le contraddizioni di spazi politici, economici e sociali sia locali che globali. Essa può, ad esempio, rivolgersi alla forma documentario, non tanto per affrontare attraverso di esso l' analisi delle peculiarità tecniche del video digitale, quanto, piuttosto, per sfruttarne le caratteristiche di flessibilità di impiego ed economicità allo scopo di farne un mezzo di inchiesta, uno strumento conoscitivo rispetto al nostro tempo ed ai movimenti sociali contemporanei. La forma documentario, inoltre, potrebbe venire facilmente indicata come uno dei principali strumenti di auto-rappresentazione, elemento vitale per sfuggire alle distorsioni dei media ufficiali, eppure c'è qualcosa di più. In questa mostra, infatti, la quasi totalità degli artisti è formata da attivisti o, perlomeno, da persone che in passato hanno intrapreso un percorso di militanza. Nelle loro mani il documentario perde la sua caratteristica di apparente imparzialità per diventare un vero e proprio atto di partecipazione nella definizione di una soggettività in lotta. Certo non possiamo giungere a conclusioni risapute e scontate, non si tratta qui di far coincidere l'arte con l'attivismo politico, di far sparire la prima nel secondo, di fonderli. Si tratta piuttosto di accettare che l'arte faccia rizoma, ovvero che proceda all'interno di un'infinità di processi di deterritorializzazione e riterritorializzazione, che essa si faccia veicolo di desiderio capace di innestarsi sulla dimensione politica, sociale, economica, per poi tornare a riferirsi alle vicende della storia dell'arte, a citarla, criticarla, legittimarla, in poche parole, a farne parte. Non si tratta della vecchia questione di far coincidere arte e vita, artista e produttore, ma si tratta piuttosto di accettare la loro differenza come elemento non esclusivo, come un ponte utile a collegarli piuttosto che un baratro che li divide. Si tratta, inoltre, di accettare una sfida del nostro tempo, del nostro modello di produzione postfordista basato sulla centralità del lavoro immateriale, della conoscenza e degli affetti. In tale contesto l'arte assume certamente nuove potenzialità, si trova a guadagnare efficacia in quanto strumento adatto alla decostruzione della narrazione ufficiale, dei linguaggi del potere, come mezzo in grado di problematizzare il confine apparentemente netto tra fiction e realtà. A proposito di contesti, credo valga la pena segnalare, in conclusione, la particolarità del S.A.L.E., spazio artistico no profit e, contemporaneamente, spazio di movimento. Il gruppo che anima il S.A.L.E. è composto da attivisti, studenti, artisti e lavoratori immateriali. Il progetto nasce dalla nostra riflessione intorno alla natura dello sviluppo che sta interessando una città come Venezia, la quale, già caratterizzata da più di un secolo di Biennale, sta, negli ultimi anni, investendo in maniera sempre più decisa nel settore dell'arte contemporanea. Ne sono prova l'operazione legata al miliardario francese Pinault che entra nella gestione di Palazzo Grassi e nella prossima apertura dei nuovi spazi espositivi di Punta della Dogana proprio a pochi metri dal S.A.L.E., la creazione di una nuova facoltà di Arti e Design, l'assegnazione alla Fondazione Vedova del magazzino adiacente al S.A.L.E. e, infine, l'idea di Comune di promuovere una stecca del contemporaneo che si dipani idealmente attraverso una porzione importante del centro storico. Tutte operazioni che denotano una progettualità lungimirante rispetto all'arte contemporanea, ma che corrono il rischio di esaurirsi in una strategia di mercato diretta al cosiddetto turismo d' élite. Da parte nostra, come attivisti, artisti e ricercatori crediamo che l'arte e la produzione culturale facciano parte di quel comune che dobbiamo conquistare e costruire e che possano, perciò, divenire uno strumento importante di critica rispetto al nostro tempo e, magari, forme efficaci di intervento e di mutamento del tessuto urbano. E' chiaro che tale compito spetta a noi in quanto attivisti, alle soggettività informali e di movimento; è per la loro natura stessa che le istituzioni, sia artistiche che politiche, letteralmente non possono rispondere a questa urgenza, ciononostante, possono cogliere il carattere di opportunità rappresentato da un'esperienza come, ad esempio, quella del S.A.L.E. e tentare di non ostacolarla. In questo senso, i pochi mesi di vita del S.A.L.E. hanno sollevato essenzialmente un problema; quello della natura di una città come Venezia che sembra aver scelto di dare in affitto il proprio destino, una città ricca di potenzialità, ma avara, per spazi e mentalità, nei confronti di quel tessuto sociale di studenti, attivisti e precari decisi a trasformare la città in “fabbrica”, anziché in teatro prestigioso di una contemporaneità costruita altrove. Il percorso del S.A.L.E. ha incontrato un grosso consenso ed è stato reso possibile dal nostro lavoro “dal basso” teso ad infilarsi in quegli stretti spiragli aperti dai modelli di governance impiegati dall'amministrazione. Ma oltre al consenso, com'era prevedibile, il S.A.L.E deve fare i conti con le resistenze di una parte importante della politica istituzionale cittadina, sia di destra che di sinistra, preoccupata di tenere sotto controllo l'immagine di una città in cui il decoro fornisca il make up alla degradante, questa sì in termini culturali, invasione del turismo di massa. Parti politiche felici di sostenere progetti artistici di grande richiamo, ma incapaci di relazionarsi quando l'arte tenta di prendere posizione, di partecipare, come nel caso del S.A.L.E. ai processi reali che definiscono il presente e forse il futuro, di una città.
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